lunedì 1 settembre 2008

La tragica comicità de La Mandragola

I valori dissolti dell'UmanesimoSiamo nel secondo decennio del ’500. La Repubblica fiorentina è caduta, a Firenze sono tornati i Medici. Niccolò Machiavelli, che era stato “segretario” della Repubblica, viene allontanato dai pubblici uffici e dalla città e si rifugia in una villa paterna in campagna. È in questo periodo di esilio politico che Machiavelli scrive i suoi capolavori, Il Principe e La Mandragola, un trattato politico che analizza le diverse forme di esercizio del potere e una commedia che racconta le vicende boccaccesche di mariti cornuti, consiglieri astuti, frati avidi, belle donne contese e giovani innamorati. L’autore è un uomo arrabbiato e sconfitto come la sua città, Firenze, che più di tutte ha combattuto la signoria e si è opposta al sistema delle corti e dei cortigiani. Entrambi i “ghiribizzi”, destinati il primo a segnare la scienza della politica, il secondo a illuminare la storia del teatro, non troveranno risposte e seguaci nel suo tempo. di Giancarlo Di Giovine, foto Archivio IGDA Le due opere derivano dall’Umanesimo fiorentino ma perdono la fede nel passato e l’ottimismo verso il futuro che lo avevano caratterizzato, per rifugiarsi invece nell’utopia e nella tragedia. L’utopia espressa è quella di un principe che sia redentore delle povere sorti e dei perduti valori dell’Italia. E la tragedia, se pur narrata ne La Mandragola come commedia – e una commedia così precisamente comica – è quella della borghesia comunale, con la decadenza delle storie, i costumi e i caratteri, ridotti ormai a pura parodia, di una classe destinata a lunghi e oscuri secoli di eclisse. Il personaggio più divertente della commedia, il dottor Nicia, è infatti un borghese rimbecillito da una falsa dignità personale e da ipocrite convenzioni sociali. Vuole avere un figlio dalla bella e giovane moglie Lucrezia e per raggiungere questo obiettivo andrà incontro ad umilianti beffe sessuali e pesanti raggiri economici, vivendole come cose giuste ed appropriate. Il fine giustifica i mezzi, ce lo insegna Machiavelli, e infatti per avere un figlio Nicia concede la moglie al giovane Callimaco, mantenendolo sotto il suo tetto, e offre inoltre favori e soldi al perfido Ligurio, uomo di sapere e ragione, e all’avido frà Timoteo, uomo di chiesa e superstizione. Il giovane Callimaco, forte, bello e ricco, viene dalla Francia, da dove, sul finire del ’400, scese anche Carlo VIII che attraversò l’Italia senza trovare resistenza e minando alle basi i sogni delle corti rinascimentali. Callimaco, però, arriva a Firenze con mire del tutto diverse da quelle del re di Francia: lui vuole conoscere e possedere la bella Lucrezia, la cui fama ha raggiunto Parigi. Ma Lucrezia tanto è bella tanto è virtuosa e l’impresa di Callimaco sembra disperata. In suo soccorso, arriva un parassita, Ligurio, il cui grande ingegno si sviluppa solo nello scroccare qualche cena e qualche lira, ma che per Callimaco elabora invece un piano perfetto: raggirare l’ingenuità di Nicia e il timor di Dio di Lucrezia con le loro stesse armi, scienza e religione. Ligurio fa passare Callimaco per un medico parigino che conosce il rimedio per la sterilità delle donne: una pozione di mandragola. Il problema è che quest’erba contiene veleno e ad assorbirlo non è il corpo della donna, bensì quello dell’uomo che giace con lei. Per cui bisogna «Fare dormire subito con lei un altro che tiri, standosi seco una notte, a sé tutta quella infezione della mandragola». Nicia accetta e anche la moglie, dopo molte resistenze, si lascia convincere dal frate confessore, frà Timoteo. Naturalmente sotto le vesti del "garzonaccio scioperato" destinato al sacrificio ci sarà Callimaco il quale, dalla notte con Lucrezia, non rischierà ovviamente nulla ma vivrà il piacere dei sensi e della conquista. È un meccanismo perfetto, inesorabile, congegnato da questo terribile demiurgo, Ligurio, che, a differenza degli altri, non prova alcun turbamento, tutto intento com'è a distribuire ruoli e tempi nella magnifica commedia. È forse lui il principe? Scaltro, avveduto, infame, vincitore. E qual è il premio per l'ingegno di questo piccolo Machiavelli? Una cena ottenuta gratuitamente? Callimaco è soltanto una pedina nelle sue mani, come un principe fatuo e sensuale nelle mani di un bravo consigliere. Il principe innamorato raggiunge il suo scopo: conquista, non per una notte ma per sempre, il corpo e l'amore della bella Lucrezia, ma il messaggio machiavelliano sta tutto in questo finale solo apparentemente felice: la donna che accetta l'amato e lo elegge a suo nuovo padrone e l'assurda scelta di Nicia di consegnare al rivale casa, moglie, averi e discendenza, lasciano trasparire in realtà la vacuità dell'impresa di Callimaco, la sciocca facilità dell'uomo che confonde il bene con il male, la sua capacità di raggiungere la perfezione dei mezzi per perderla però nella meschinità di un fine piccolo. In quanto al frate, si interroga sulla propria condotta solo per giustificarla: se ha ceduto al diavolo è perché è troppo buono e perché l'ozio del suo magistero a questo l'ha condotto. Eppure con quanta scaltrezza e abilità frà Timoteo convince la dolce e timorata Lucrezia a giacere con uno sconosciuto senza crearsene problema. «Quanto allo atto, che sia peccato, questo è una favola, perché la volontà è quella che pecca, non el corpo; e la cagione del peccato è dispiacere al marito, e voi li compiacete; pigliarne piacere, e voi ne avete dispiacere. Oltr'a di questo, el fine si ha a riguardare in tutte le cose: el fine vostro si è riempire una sedia in paradiso, e contentare el marito vostro».